Drummond·EB (2018) • 𝐸 = 𝑚𝑐². Massa, energia e… velocità della luce al quadrato

𝐸 = 𝑚𝑐². Massa, energia e… velocità della luce al quadrato


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Il nesso esistente in fisica tra forza ed energia può farci comprendere necessità e significato del quadrato nel fattore 𝑐² della celebre formula di Einstein
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di Edoardo B. Drummond
BabylonPost — 27/11/2016 (domenica 27 novembre 2016)


È ormai passato un secolo da quando Albert Einstein formulò la sua teoria della Relatività generale, e son trascorsi 111 anni da quando, nel 1905, egli scrisse la più famosa delle sue formule, quella che stabiliva l’equivalenza tra massa ed energia. Che la materia possa trasformarsi in energia e viceversa è ormai un fatto inconfutabile, accettato da tutti, tanto più che quella semplice formula permette di comprendere non solo sulla base di quale principio funzionino acceleratori di particelle e centrali nucleari, ma anche come si produce all’interno del Sole quell’energia che qui sulla Terra ci è necessaria per vivere.

Ogni giorno, in tutto il mondo, migliaia e migliaia di fisici lavorano quotidianamente a progetti ed esperimenti che non avrebbero alcun senso se tale trasformazione non fosse possibile. Eppure, per il comune mortale, quella formula, pur così semplice in apparenza, mantiene un aspetto recondito e misterioso. Che significato ha il quadrato della velocità della luce? — si chiedono senza dubbio in molti — E perché è proprio quello, un numero enorme, il fattore che determina la conversione di materia in energia?

Proviamo qui a derivare la formula da alcune semplici considerazioni, confidando che anche chi non abbia dedicato anni allo studio della fisica, e tantomeno della relatività einsteiniana, sarà in grado di seguire la nostra linea di ragionamento. Occorre prima però fare un breve preambolo, che riguarda il senso dell’uguale. Anche l’uguale, infatti, pur essendo in apparenza tanto semplice, può racchiudere in sé significati assai diversi. Dipende insomma da come lo si guarda.

Tanto i fisici quanto i matematici, ad esempio, lavorano spesso con formule ed equazioni, e nello scriverle l’uguale è un segno fondamentale [1], un elemento che al tempo stesso separa e unisce ciò che sta alla sua sinistra e ciò che sta alla sua destra. E però, sebbene scrivano le formule sostanzialmente nello stesso modo, matematici e fisici le “leggono” in modo diverso. Consideriamo, per chiarire la differenza, la seconda legge della dinamica di Isaac Newton (1642-1727):

𝐹 = 𝑚·𝑎

La forza che agisce su un corpo (𝐹) — ci dice questa formula — è uguale alla massa (𝑚) del corpo moltiplicata per l’accelerazione (𝑎) del corpo stesso. Questo accade per esempio quando la forza che agisce è quella di gravità (il peso), e in tal caso il corpo, lasciato libero di cadere, accelera progressivamente fino all’impatto col suolo. Oppure può trattarsi di un veicolo (un’automobile, un treno, un’astronave) in cui la forza esercitata dal motore imprime un’accelerazione al veicolo stesso. In entrambi i casi, l’uguale può esser visto come una relazione tra valori numerici: la formula dice che se per uno stesso oggetto voglio ottenere un’accelerazione doppia, devo raddoppiare la forza; se invece voglio raddoppiare l’accelerazione mantenendo la stessa forza, l’unica possibilità è ridurre la massa alla metà.

Letta con gli occhi del fisico, però, la formula dice anche — e forse soprattutto — un’altra cosa: l’uguaglianza scritta è tra grandezze fisiche, e il valore di tali grandezze dipende inevitabilmente dall’unità di misura che utilizzo. Una distanza, ad esempio, può essere rappresentata da numeri diversi se la misuro in chilometri o in miglia, un chilo di farina o di carne è diverso da una libbra. Ma una legge fisica dev’essere valida indipendentemente dalle unità usate, e dunque, considerando nuovamente la formula di cui sopra, se cambio l’unità di misura della massa, allora deve cambiare in modo coerente anche l’unità di misura della forza; se cambio il modo di misurare l’accelerazione (cambiando l’unità di misura delle distanze oppure quella del tempo, o entrambe), ugualmente deve cambiare l’unità della forza. I fisici esprimono questo concetto affermando che esistono unità “fondamentali” (il chilogrammo, il metro, il secondo ecc.) e unità “derivate” (quella della forza si chiama per l’appunto Newton): le unità fondamentali, implicite sopra alla destra dell’uguale, sono “nascoste” in quella della forza, a sinistra dell’uguale [2].

Un altro modo per esprimere lo stesso concetto è il “bilanciamento dimensionale”: in ogni equazione della fisica, se ho una grandezza (per esempio una distanza) a destra dell’uguale, allora devo averla, in forma manifesta oppure nascosta — nel modo che abbiamo accennato sopra — anche a sinistra. Fine del preambolo.

Veniamo adesso all’energia. Che cosa si intende per energia? L’idea che dentro gli oggetti esista qualcosa che in certe condizioni si può estrarre ed utilizzare è sicuramente molto antica [3]. Che questo qualcosa possa anche non avere una consistenza materiale, ma essere solo una possibilità da concretizzare in un’azione o in un cambiamento deve aver richiesto secoli e forse millenni di elaborazione. La concezione moderna — forse abbozzata dagli antichi scienziati greci, ma di sicuro perfezionata all’epoca della cosiddetta rivoluzione scientifica e industriale — è che gli oggetti contengono “qualche cosa” (è una loro proprietà) che può, in determinate circostanze, essere estratta per compiere un lavoro [4]. Ma che cos’è il lavoro?

Per compiere un lavoro, possiamo pensare, è innanzitutto necessaria una forza (e qui torniamo a Newton), ma non basta. Per esempio: posso spingere un muro oppure un macigno “fino a consumare tutte le mie forze”, ma quello non si sposta e così non ho fatto nessun lavoro. Se invece spingo o trascino un oggetto pesante ma mobile, allora modifico l’esistente e compio effettivamente un lavoro, un lavoro tanto maggiore quanto maggiore è la forza applicata e quanto maggiore è lo spostamento ottenuto. Esprimendo il concetto in termini matematici, possiamo dire che il lavoro è forza per spostamento, intendendo con quest’ultimo la distanza percorsa [5]. Ovvero: energia = lavoro = forza per distanza. Che può essere scritto nella notazione matematica:

𝐸 = 𝐿 = 𝐹·𝑑

L’energia (𝐸), dunque, è una forza (𝐹) per una distanza percorsa (𝑑). Ma la forza — lo abbiamo visto sopra — altro non è che una massa per un’accelerazione; e quindi, sostituendo, abbiamo:

𝐸 = 𝑚·𝑎·𝑑

Energia uguale massa per accelerazione per distanza percorsa. Ma l’accelerazione che cos’è? È la variazione della velocità nell’unità di tempo, che possiamo anche scrivere come 𝑣 / 𝑡 [6]. Abbiamo così:

𝐸 = 𝑚·𝑣·𝑑 / 𝑡

Se ora consideriamo che la distanza percorsa (𝑑) divisa per il tempo (𝑡) è di nuovo una velocità (𝑣), possiamo riscrivere la formula come segue:

𝐸 = 𝑚·𝑣²

In pochi passaggi, siamo già arrivati molto vicino alla formula di Einstein, e non abbiamo ancora fatto ricorso a nessun sofisticato principio relativistico. Occorre ancora comprendere perché la velocità 𝑣 debba essere proprio quella della luce (𝑐). Possiamo per questo ricorrere a un argomento intuitivo, anche se non proprio rigoroso.

È esperienza comune che la massa è una proprietà additiva [7]: se ho due oggetti separati, la massa totale è la somma delle rispettive masse. Ma anche l’energia, per come l’abbiamo definita sopra, è una proprietà additiva: il lavoro totale che possiamo estrarre da due corpi è la somma dei lavori estraibili separatamente dall’uno e dall’altro, quindi l’energia totale è la somma delle energie. A questo punto, l’ipotesi più semplice è che il fattore di conversione 𝑣² tra massa ed energia sia una costante e, ancor di più, che sia una costante universale. Ma l’unica velocità che è una costante universale — questo è uno dei presupposti della teoria della relatività — è proprio la velocità della luce. Essa non dipende infatti né dal luogo, né dal tempo, né dalla velocità con cui ci spostiamo. Possiamo dunque scrivere:

𝐸 = 𝑚·𝑐²

In verità, poiché l’argomentazione che abbiamo svolto è di carattere puramente “dimensionale”, potrebbe ancora esserci una costante adimensionale (in senso fisico), un semplice numero come lo sono ½, π (pigreco), oppure √2 (radice di 2) [8]. Il nostro intento era però quello di mostrare perché nella formula di Einstein era necessario l’elevamento al quadrato della velocità della luce, e questo non verrebbe alterato dall’introduzione di una costante.

Naturalmente, la vera dimostrazione della formula di Einstein è quella che ne diede Einstein nel 1905, ma purtroppo il suo ragionamento è irto di radici quadrate e difficile da seguire per chi non sia versato nelle materie scientifiche. La sua conclusione, comunque, è che la costante vale uno, e che quindi la formula scritta sopra è proprio esatta.


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NOTE
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[1]. Alla storia del segno di uguale e ai diversi modi di intenderne significato e senso abbiamo già dedicato un articolo nel 2015; si veda, su “Babylon Post”, E.B. Drummond, ‹Uguale e diverso: dai calcoli degli antichi alla scienza della realtà umana› (non più disponibile alla pagina originaria http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=114236&typeb=0&uguale-e-diverso-dai-calcoli-degli-antichi-alla-scienza-della-realta-umana, ma ora qui).

[2]. Non ce ne vogliano i matematici, per la parte fatta loro giocare nell’argomento; si tratta appunto di un “gioco delle parti”, col proposito di chiarire i diversi modi di intendere l’uguale. La “storiella” però non sarebbe completa senza il contributo degli ingegneri, i quali concluderebbero per le vie brevi affermando che senz’altro 𝐸 = 𝑚𝑐²±1, inficiando così l’intera argomentazione svolta nel testo. Ci auguriamo che in futuro anche gli psichiatri, che da qualche tempo si interessano alla fisica, possano dare un loro contributo.

[3]. Si trova, in fondo, già nell’allattamento: il latte è il “contenuto” dell’oggetto seno, cioè della madre; al crescere del bambino, diverrà poi il “sapere” dell’altro.

[4]. Accade spesso che la storia e l’evoluzione delle idee lascino tracce per così dire “fossili” nella morfologia delle parole, tracce di cui i parlanti non sono talvolta neppure consapevoli. Lo stretto nesso tra energia e lavoro è rimasto nella radice “erg” — la stessa di “sinergia”, “ergonomia”, “ergoterapia” — che appunto in greco vuol dire “lavoro”. La forza (‹dynamis› in greco) permane nell’aggettivo “dinamico”, e lo strumento utilizzato per misurare la forza vien detto ancora oggi “dinamometro”.

[5]. In realtà, per essere precisi, tanto la forza quanto lo spostamento sarebbero vettori, cioè rappresentabili nelle tre dimensioni dello spazio come frecce orientate; il lavoro è il “prodotto scalare” tra i due vettori, ovvero il modulo dell’uno per il modulo dell’altro per il coseno dell’angolo tra i due; queste precisazioni però non sono rilevanti per l’argomentazione “dimensionale” sviluppata nel testo.

[6]. Sarebbe, per l’esattezza, la derivata della velocità rispetto al tempo, ma anche in questo caso la precisazione non incide sull’argomentazione “dimensionale”.

[7]. Il termine tecnico utilizzato dagli addetti ai lavori è “estensiva”. In una situazione in cui la forza di gravità è costante, la massa è proporzionale al peso – tanto che è facile confondere i due concetti – ed è ben noto che se trasporto due pesi, il peso totale è la somma dei due, ad esempio 1 kg + 1 kg = 2 kg.

[8]. Il passaggio si presta a una riflessione che riteniamo interessante: le costanti “fisiche” fondamentali tendono ad assumere valori molto grandi (la velocità della luce 𝑐 = 300.000 km/s circa) oppure molto piccoli (la costante di Planck ℎ = 6,626×10-34 J·s), mentre quelle “adimensionali” sono in genere abbastanza prossime all’unità. La circostanza si può attribuire alle nostre unità di misura, che per ragioni pratiche sono adeguate alle dimensioni e ai movimenti del corpo umano: un metro è più o meno la lunghezza di un passo, un chilo è un peso che possiamo trasportare senza affanno e senza accorgimenti particolari, un secondo è la durata di una pulsazione cardiaca ma anche il tempo necessario a compiere un’azione semplice, quale prendere un oggetto o fare un passo. Noi siamo però per forza di cose molto grandi rispetto alle particelle subatomiche (il cosiddetto “infinitamente piccolo”), e al tempo stesso molto piccoli rispetto alle galassie e all’universo (ciò che è “infinitamente grande”). Esistono sistemi di unità di misura — detti “naturali”, ma usati in pratica soltanto dai fisici per semplificare la scrittura delle loro formule — in cui costanti “universali” come 𝑐 ed ℎ valgono 1. Se 𝑐 vale 1, ovviamente anche 𝑐² vale 1; cade in tal caso la differenza tra 𝑐 e 𝑐². Si veda, a titolo di esempio, sul blog del fisico Marco Delmastro (che lavora al CERN di Ginevra), l’articolo ‹Massa, velocità, energia. La formula più famosa del mondo e il teorema di Pitagora› (http://www.borborigmi.org/2008/10/28/massa-velocita-energia-la-formula-piu-famosa-del-mondo-e-il-teorema-di-pitagora/) (anche qui). Le costanti “adimensionali” come π, √2 (radice di 2), o la cosiddetta sezione aurea, sono invece “per loro natura” prossime all’unità perché legate a fattori geometrici che non dipendono dalle dimensioni del mondo reale.

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[] http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=126907&typeb=0&e-=-mc%B2-massa-energia-e--velocita-della-luce-al-quadrato-
[] http://archividiroccosolina.blogspot.com/p/2016-11-27-babylonpost-drummond-massa.html
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