Capitolo terzo - Che cos’è la matematica?
Scheda ••▶ (testo)
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◀•• 3. Che cos’è la matematica? [pp. 51-81]
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La formula «due più due fa cinque» non manca di attrattiva.Fëdor M. Dostoevskij
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TERMINI-CHIAVE
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• antitesi
• aritmetica
• assioma (assiomi)
• assiomatica
• bourbakista (filosofia bourbakista)
• categoria (categorie mentali, Kant)
• cervello (funzionamento del cervello)
• computabile (operazioni matematiche non-computabili)
• computabilità
• computer (~macchina di Turing?)
• conoscenza
• consapevolezza umana
• consistenza (coerenza interna, consistenza dell’aritmetica)
• controintuitivo (proprietà controintuitive)
• costruttivismo (=intuizionismo)
• creazione (creazione umana, creazione del mondo)
• deduttivo (sequenze deduttive)
• deduzione (regole della deduzione aritmetica)
• empirista (empiristi, posizione empirista)
• evoluzione (evoluzione dell’Universo)
• formalismo (“formalismo” matematico, Hilbert)
• geometria
• idealista (idealisti)
• incoerenza
• indecidibile (una proposizione può essere vera, falsa o indecidibile)
• indecidibilità
• inferenza (regole di inferenza)
• infinito (insiemi infiniti)
• intelligenza artificiale
• intuizione (intuizioni spaziali immediate, intuizione umana)
• intuizionismo (=costruttivismo)
• invenzionismo
• linguaggio
• logaritmo (logaritmi)
• logica (logica immateriale)
• logicista (tradizione logicista)
• matematica (matematica pura, matematica applicata)
• metafisica
• metamatematica
• metodo (metodo assiomatico)
• miracolo
• mistico (esperienza mistica)
• numerologia
• onnipotenza (onnipotenza di Dio)
• operativismo [sic!] (dottrina dell’operativismo)
• operazionalista (filosofia operazionalista)
• paradosso (paradossi logici, paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen)
• pi greco (πª)
• platonico (interpretazione platonica della matematica, neo-platonici)
• platonismo matematico
• quanto (fisica dei quanti)
• razionalità
• realista
• ‹reductio ad absurdum›
• relatività (relatività generale)
• religione
• rivelazione (rivelazione divina)
• scienza (scienze sperimentali)
• significato (della matematica, di una formula)
• singolarità (singolarità costruttiva)
• teologiaª (filosofia teologica)
• tricotomia (una “dicotomia” con 3 casi)
• Universo
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(ª) espressione non esplicitamente contenuta nel testo.
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STUDIOSI OPERE E PERSONAGGI
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• Bourbaki (Charles Denis Sauter Bourbaki, generale francese, di origine grecaª)
• Bourbaki (Nicolas Bourbaki, consorzio di matematici francesi)
• Brouwer (Luitzen Brouwer)
• Church (Alonzo Church)
• Dieudonné (Jean Dieudonné)
• Einstein
• Epimenide (paradosso di Epimenide)
• Gödel (Kurt Gödel)
• Hilbert (David Hilbert)
• Kant (approccio filosofico kantiano, categorie kantiane)
• Kronecker (Leopold Kronecker)
• Leibniz
• Paolo (Paolo di Tarsoª)
• Penrose (Roger Penrose)
• Pitagora (teorema di Pitagora)
• Poincaré
• Post (Emil Post)
• Russell (Bertrand Russell)
• Spinoza
• Turing (Alan Turing, macchina di Turing)
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(ª) nome o dettaglio non esplicitamente contenuto nel testo.
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ESTRATTI
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Esiste un’ampia gamma di punti di vista filosofici sulla natura e sulla acquisizione della conoscenza umana in generale, e di quella matematica in particolare. I punti di vista filosofici più comuni sulla natura delle cose sono quattro. In primo luogo c’è la posizione ‹empirista› secondo la quale tutti i nostri concetti vengono acquisiti tramite l’esperienza. Per gli empiristi non esistono verità necessarie. Ci sono poi gli ‹idealisti› i quali credono nell’esistenza di un mondo esterno alla nostra mente in cui le cose esistono indipendentemente da noi e la nostra conoscenza è il risultato di un processo di scoperta. Un’aggiunta recente alla lista delle alternative è la filosofia ‹operazionalista› che ha goduto di grande popolarità nei primi anni di questo secolo. Essa cercava di definire il significato delle cose tramite la sequenza di passaggi o «operazioni» che avremmo dovuto eseguire per misurarle. Infine esiste la tradizione ‹logicista› che condivide la stessa mentalità limitativa e cerca di codificare tutta la nostra conoscenza entro un sistema di assiomi e regole di inferenza, così che la conoscenza viene ad essere ‹definita› come la serie di tutte le sequenze deduttive che possono partire da tutti i possibili assunti iniziali logicamente coerenti.
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Tuttavia, se la matematica fosse interamente un’invenzione umana e venisse usata dagli scienziati semplicemente perché è utile e disponibile, ci potremmo aspettare delle significative differenze culturali nel suo ambito. Invece, anche se è possibile discernere variazioni stilistiche nella presentazione di concetti matematici e nel tipo di matematica studiata dalle varie culture, non si tratta che di differenze superficiali. La scoperta autonoma degli stessi teoremi matematici da parte di studiosi diversi, provenienti da ambienti economici, culturali e politici completamente diversi, in epoche diverse della storia, contraddice questo modo semplicistico di vedere le cose. Inoltre l’insolito fenomeno della invenzione autonoma da più parti della stessa verità matematica differenzia la matematica creativa dalla musica e dalle arti: ad esempio, il teorema di Pitagora è stato scoperto indipendentemente molte volte da pensatori diversi e questo dimostra che i fondamenti della matematica esistono al di fuori della mente umana e non vengono modellati totalmente dal nostro modo di pensare.
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Coloro che hanno abbracciato questo approccio minimalista al problema dell’efficacia della matematica potrebbero fare un passo più avanti di Kant e dire che, anche se può darsi che sia vero che noi abbiamo delle categorie mentali che filtrano la nostra conoscenza grezza del mondo, esse hanno soltanto l’effetto insignificante di distorcere le cose. Le nostre facoltà mentali sono il risultato di un processo di selezione naturale il quale deve scegliere quelle rappresentazioni del mondo che sono più fedeli alla vera natura del mondo esterno. Sono i nostri occhi a dirci qual è la vera natura della luce, e le nostre orecchie ci rivelano la vera natura del suono. Se la nostra mente avesse modellato rappresentazioni del mondo che si allontanavano in modo significativo dalla vera natura delle cose, esse sarebbero sopravvissute meno a lungo di rappresentazioni più fedeli. Questa argomentazione, in effetti, non solo ci assicura che le distorsioni mentali dovute alle categorie kantiane potrebbero essere innocue, ma ci spiega anche l’origine di quelle categorie e perché esse sono condivise da menti umane diverse. Ma c’è qualcosa che non torna in questa teoria, se vogliamo prenderla come un approccio diretto e realistico. Mentre da una parte sembrerebbe assicurarci che la nostra concezione del mondo, inclusi gli aspetti matematici, sia sufficientemente accurata per permetterci di sopravvivere all’interno del processo evolutivo, non c’è motivo perché le nostre rappresentazioni degli aspetti più astrusi dell’Universo, che non hanno alcun ruolo nel processo evolutivo, debbano essere state concepite correttamente. Tuttavia molto spesso è proprio in queste aree della scienza maggiormente lontane da quelle che hanno avuto un ruolo importante nella nostra evoluzione che la matematica si dimostra più affidabile ed efficace.
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Il modo più semplice di vedere la matematica è quello di sostenere che il mondo ‹è›, in qualche senso, profondamente matematico; i concetti matematici esistono e vengono scoperti, non inventati dai matematici. Il «pi greco» esiste davvero nel cielo, e la matematica esiste, che ci siano o meno i matematici. È un linguaggio universale che potrebbe essere usato per comunicare con abitanti di altri pianeti il cui sviluppo fosse completamente indipendente dal nostro (la cosa interessante è che questa posizione sembra adottata implicitamente da tutti coloro che si dedicano alla «ricerca delle intelligenze extra-terrestri», i quali hanno perciò deciso di irradiare nello spazio informazioni sulla scienza umana e sulla matematica). Per il realista, il numero «sette» esiste solo come idea immateriale, che vediamo realizzata in casi specifici come quelli dei sette nani, delle sette spose o dei sette fratelli. Questo modo di vedere le cose viene a volte chiamato ‹platonismo matematico› perché sostiene l’esistenza di un altro mondo fatto di forme matematiche perfette che costituiscono le matrici da cui deriva la nostra esperienza imperfetta. Inoltre si ritiene che la nostra elaborazione mentale dei dati sensoriali non abbia alcuna conseguenza sulla natura matematica della realtà. Convinzioni di questo tipo sembrano implicare che Dio sia un matematico: in effetti, se l’intero Universo materiale può essere descritto dalla matematica (come assume la moderna cosmologia), deve esistere una logica immateriale più vasta dell’Universo materiale.
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L’introduzione di una interpretazione platonica della matematica dà origine ad un sorprendente parallelo tra matematica e filosofia teologica. L’intera panoplia di proprietà e di attributi di Dio sviluppata dai primi filosofi religiosi neo-platonici può essere utilizzata quasi parola per parola per descrivere la matematica, se sostituiamo la parola «Dio» con la parola «matematica». La matematica dei platonisti trascende il mondo, è vista come qualcosa che esisteva prima della creazione del mondo materiale e si prevede che durerà anche dopo la sua scomparsa. Quando i filosofi antichi cercavano di integrare concetti come quelli delle leggi di natura in un quadro teologico dell’Universo ci riuscivano senza grandi difficoltà. Erano anche capaci di incorporare nel loro sistema, in modo appropriato, la possibilità di sospensione delle leggi di natura, cioè il miracolo. Ma l’onnipotenza di Dio incontrerebbe qualche difficoltà in matematica. Riusciamo a immaginare che una legge di natura venga sospesa o anche infranta (soprattutto perché quanto osserviamo sono i risultati delle leggi, non le leggi stesse), ma è possibile infrangere una legge logica o matematica? Il pensiero dei teologi medievali era profondamente diviso sulla questione se l’onnipotenza di Dio fosse compatibile con la Sua creazione di un mondo in cui esistono impossibilità matematiche. Spinoza credeva che questa libertà esistesse, ma contro di lui si schieravano i sostenitori dell’idea che Dio non avesse affatto questa libertà di manovra perché non ne esisteva la possibilità. Questo sembrerebbe subordinare la divinità alle leggi della matematica e della logica. La realtà matematica platonica si opponeva all’idea di una divinità onnipotente e onnipresente. Si potrebbe portare avanti questo argomento e scoprire altri aspetti del dilemma, come il problema del male oppure quello della rivelazione contrapposta alla razionalità nella scoperta matematica, ma ci porterebbe troppo lontano.
I realisti considerano l’incomprensibile efficacia della matematica nel descrivere la Natura come prova evidente a sostegno della propria teoria. La maggior parte degli scienziati e dei matematici svolgono il loro lavoro quotidiano come se la posizione realistica fosse corretta, anche se non avrebbero il coraggio di difenderla con decisione nell’ambito di una discussione. Ma questo tipo di realismo comporta una conseguenza davvero straordinaria. Se riusciamo a concepire l’esistenza di un progetto matematico alla base dell’evoluzione dell’Universo in cui possono esistere osservatori come noi (e chiaramente questo siamo in grado di concepirlo), allora questo progetto esiste in ogni senso; insomma, devono esistere degli osservatori intelligenti.
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Ma il platonismo presenta anche una serie di difficoltà, essendo permeato di concetti vaghi. Dove si trova questo altro mondo di oggetti matematici che noi scopriamo? Come entriamo in contatto con esso? Se le entità matematiche esistono veramente al di là del mondo fisico del particolare di cui abbiamo esperienza diretta, allora sembrerebbe che l’unico modo in cui possiamo entrare in contatto con quel mondo sia una specie di esperienza mistica, più simile a una seduta spiritica che a un approccio scientifico. Non possiamo trattare l’acquisizione della conoscenza matematica come trattiamo altre forme di conoscenza del mondo fisico. Queste ultime le consideriamo forme di conoscenza significative perché gli oggetti che arriviamo a conoscere sono in grado di interagire con noi in modo casuale [sic!], mentre le entità matematiche non hanno alcuna possibilità di entrare in contatto con noi in questo modo. La visione platonica della matematica ci crea grossi problemi dal punto di vista della metafisica. Gödel era un grande sostenitore di questa visione e credeva nell’esistenza di una realtà immateriale con cui possiamo avere «un altro tipo di rapporto». Roger Penrose ha elevato la frase di Gödel, la quale dimostra la propria indimostrabilità, a segno della consapevolezza umana, ma questa ci sembra un’idea un po’ strana: stando ad essa chiunque non sia in grado di afferrare il significato e la verità della frase di Gödel sarebbe in un certo senso non completamente consapevole. E allora i bambini? E i non matematici?
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L’ultima risposta al fermento di incertezze sui paradossi logici che aveva generato il formalismo all’inizio di questo secolo, è stata il ‹costruttivismo›, una versione matematica della dottrina dell’operativismo [sic!]. Il suo punto di partenza, secondo Leopold Kronecker, uno dei suoi ideatori, era il riconoscimento del fatto che «Dio ha creato i numeri interi, tutto il resto è opera dell’uomo». Quello che intendeva dire è che dovremmo accettare come punto di partenza solo le nozioni matematiche più semplici — i numeri interi 1, 2, 3, 4… e il calcolo — e poi derivare tutto il resto passo per passo a partire da queste nozioni intuitivamente evidenti. Assumendo questa posizione conservatrice i costruttivisti miravano a evitare di incontrare e manipolare entità come gli insiemi infiniti, dei quali non è possibile avere alcuna esperienza concreta e che possiedono proprietà controintuitive (infinito meno infinito può essere ancora uguale a infinito, ad esempio, come si può vedere sottraendo tutti i numeri pari da tutti i numeri naturali: rimangono ancora tutti i numeri dispari). Di conseguenza il costruttivismo è noto anche come ‹intuizionismo› per sottolineare il suo appello alle radici dell’intuizione umana.
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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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COMMENTO – Come si forma e da che cosa origina la conoscenza umana in generale, e quella matematica in particolare? Barrow distingue 4 impostazioni principali, secondo le quali pensiero e conoscenza nascerebbero
Comunque il problema di Barrow è spiegare la “sorprendente” efficacia della descrizione matematica del mondo; anche se per Kant – iscritto a sua insaputa tra gli empiristi – la percezione viene inevitabilmente “alterata” dall’intervento delle categorie, l’evoluzione naturale dovrebbe assicurare che il nostro modo di rappresentarci l’ambiente sia sostanzialmente corretto, altrimenti ci saremmo già estinti da tempo; e tuttavia l’applicabilità della matematica si spinge ben al di là dell’ambiente ristretto dal quale dipende la nostra sopravvivenza. L’approccio logicista, formalista, costruttivista o intuizionista che dir si voglia, fu una reazione ai paradossi che a fine Ottocento minacciavano la coerenza interna di molte discipline; nel 1900, al Congresso Internazionale dei Matematici di Bologna, Hilbert propose un elenco dei 10 maggiori problemi ancora irrisolti, il 2° dei quali era “dimostrare la consistenza dell’aritmetica”; nel 1931, però, Gödel dimostrò che qualsiasi teoria assiomatica abbastanza complessa da includere l’aritmetica consente di formulare proposizioni indecidibili sulla base dei suoi assiomi, vanificando in tal modo il programma di Hilbert.
Seppur ridimensionato nelle sue ambizioni, il formalismo sopravvisse nella pratica dei matematici, trovando epigoni nel gruppo Bourbaki, un consorzio di matematici francesi ai quali Barrow dedica qualche pagina polemica, appoggiandosi persino ad Einstein, prima di svelare che lui propende per un certo “platonismo matematico”, crede cioè nell’esistenza, da qualche parte fuori di noi, dei concetti e delle verità matematiche – ciò che nella rassegna iniziale aveva chiamato idealismo – e sostiene persino che tale impostazione trova una corrispondenza in alcune dispute teologiche – dagli antichi filosofi neo-platonici, a quelli medievali, a Spinoza – sulla supremazia tra l’onnipotenza divina, la logica e la matematica. Non a caso, prima di morire di denutrizione, Gödel s’era messo in testa di dimostrare l’esistenza di Dio; se non sono matti… In ogni caso Barrow ammette che l’idealismo platonico presenta gli inconvenienti menzionati sopra.
Il “costruttivismo”, una derivazione dell’operativismo [sic!] che Barrow fa risalire a Kronecker, vorrebbe limitare la legittimità dei concetti matematici ai soli procedimenti finiti, ma ha l’effetto collaterale di creare un 3° stato di verità “indecidibile” oltre a “vero” e “falso”, e l’inconveniente di escludere di conseguenza tutte le dimostrazioni mediante ‹reductio ad absurdum› che erano invece consentite dalla logica aristotelica. Per inciso, questa restrizione inficerebbe anche molte teorie fisiche moderne, come la relatività generale o la meccanica quantistica. Un accanito sostenitore delle posizioni costruttiviste, nella loro versione “intuizionista”, fu Brouwer, del quale Barrow racconta l’epico scontro con Hilbert – scontro che Einstein paragonò alla ‹Batracomiomachia› – ma il cui programma ebbe difficile accoglienza tra i matematici perché, per quanto formalmente corretto, presenta notevoli inconvenienti nel lavoro pratico. Ebbe invece maggior seguito tra gli “informatici” (Turing, Post e Church facendo scuola) anche prima che venissero effettivamente realizzati i moderni computer: la “macchina di Turing” avrebbe dovuto poter distinguere in un tempo finito quali fossero le asserzioni “vere” e quali quelle “false”, ma fu dimostrato che esistono anche proposizioni ‹non-computabili›, che richiederebbero cioè un tempo infinito per essere valutate. Oltre a queste, esistono poi “operazioni” che, pur essendo teoricamente computabili, richiederebbero comunque un tempo lunghissimo – migliaia o addirittura milioni di anni – per essere effettivamente elaborate; una tipica applicazione di funzioni del genere si trova nella moderna crittografia.
RICERCA: nuova luce sull’origine della conoscenza matematica potrebbe essere gettata dalla Teoria della nascita (Fagioli); il pensiero umano deriverebbe dalla reazione pulsionale del neonato contro lo stimolo luminoso, quindi dai “sensi” e dalla realtà del corpo, come afferma l’empirismo, ma non dall’esperienza definita e cosciente che si ha da adulti; l’annullamento e il rifiuto della realtà materiale esterna che il neonato fa lo porta a concepire una realtà interna, psichica, elaborando vaghe tracce di sensazioni prenatali in una immagine (non ancora definita né cosciente) di sé e nella speranza-certezza che esista un altro essere umano con cui entrare in rapporto. Nel corso di questo rapporto, cioè durante l’allattamento, il corpo continua a svilupparsi e i sensi diventano progressivamente più maturi, si formano così nuove immagini, via via più definite, che arricchiscono quella vaga originaria; in questo processo, un’idea che svolge un ruolo fondamentale nel dare forma specifica all’identità umana e personale è quella della linea, che non è tratta dall’esperienza (nella natura non esistono linee), ma le cui premesse, come capacità di immaginare, risalgono alla nascita.
NOTA: la linea è senza dubbio il fondamento della geometria – euclidea o non euclidea che sia – in quanto il punto, ente indivisibile, si ottiene dall’intersezione tra 2 linee, ed essendo privo di dimensioni da solo non potrebbe costruire nulla; la linea è movimento, e come tale continuità. Ma l’aritmetica, il discontinuo, l’infinito discreto, i numeri interi cosiddetti “naturali”, da dove nascono? Forse dalle poppate? In realtà, sembrerebbe esistere un collegamento tra linea e numero, per il fatto che le prime testimonianze preistoriche di rappresentazioni numeriche sono “tacche”, cioè graffi, più o meno paralleli, praticati su una superficie e accostati a formare piccoli gruppi.
•[3·1] • «[…] gli ‹idealisti› […] credono nell’esistenza di un mondo esterno alla nostra mente in cui le cose esistono indipendentemente da noi e la nostra conoscenza è il risultato di un processo di scoperta»: veramente gli idealisti “credono” nell’esistenza di un mondo popolato da “idee”, non da “cose”; se credessero nel modo delle cose sarebbe più acconcio chiamarli “realisti”.
NOTA: in effetti tra le quattro concezioni sommariamente descritte da Barrow manca quella banale, dell’uomo della strada, che è convinto che le cose siano fatte di materia ed abbiano un’esistenza oggettiva fuori di lui. Non si capisce perché Barrow assimili questa concezione a quella “idealista”.
•[3·4] • «[…] se la matematica fosse interamente un’invenzione umana […] ci potremmo aspettare delle significative differenze culturali nel suo ambito»: l’argomentazione di Barrow non tiene conto che la matematica, a differenza della creatività artistica che è “libera”, potrebbe essere tratta dalla realtà mediante un procedimento di astrazione. Si tratta quindi di una creatività “vincolata”; pensiamo, ad esempio, al nuoto: in diversi contesti il nuoto può essere “inventato” con finalità e con tecniche diverse, ma deve comunque tener conto della realtà fisiologica dell’essere umano. Un altro esempio potrebbe essere il linguaggio articolato: è difficile sostenere che l’origine di esso sia unica, e con ogni probabilità è stato “inventato” più volte, ma “sorprendentemente” segue sempre gli stessi processi di trasformazione (il “circuito della parola”).
NOTA: a ben pensarci, però, l’universalità della matematica potrebbe avere un’altra spiegazione, e quella che chiamiamo “astrazione” potrebbe essere soltanto un guscio esterno (come la grammatica lo è per le lingue); se la radice della matematica fosse nella dinamica della nascita (umana) – e quindi nel pensiero senza coscienza dei primi mesi e forse istanti di vita – allora si spiegherebbe la sua relativa indipendenza dall’influenza culturale.
•[3·5] • «Sono i nostri occhi a dirci qual è la vera natura della luce, e le nostre orecchie ci rivelano la vera natura del suono»: l’affermazione è completamente falsa se la intendiamo alla lettera, per il fatto – noto a tutti, e anche a Barrow – che i nostri sensi recepiscono soltanto una parte relativamente piccola – se non minima – dello spettro dei possibili stimoli, tant’è che specie differenti vedono e odono frequenze diverse; gli insetti, ad esempio, “vedono” gli ultravioletti, mentre noi no semplicemente perché i nostri occhi si sono sviluppati sott’acqua, dove gli ultravioletti sono filtrati dal mezzo.
•[ivi]• «Se la nostra mente avesse modellato rappresentazioni del mondo che si allontanavano in modo significativo dalla vera natura delle cose, esse sarebbero sopravvissute meno a lungo di rappresentazioni più fedeli»: ma Barrow dimentica che la chiave del successo della nostra specie non sta nell’adattarsi al mondo quale esso è, bensì proprio nell’immaginare e nel realizzare cose che nel mondo (nella natura) non esistono. Ovviamente, perché la fantasia possa avere successo, essa deve “tener conto” della realtà per poterla modificare: non basta immaginare, occorre anche saper realizzare.
NOTA: e comunque, non si vede perché le argomentazioni di Barrow debbano essere valide solamente per la specie umana; l’evoluzione naturale ha selezionato tutte le specie attualmente esistenti e persino quelle che si sono estinte, magari dopo milioni di anni come i dinosauri o ancor prima i trilobiti; ci pare assai dubbio che tra queste vi fossero dei matematici; l’unica spiegazione sta nella convinzione latente, ma assai poco giustificata, che l’essere umano sia la punta più avanzata, e per così dire “finale”, dell’evoluzione naturale; ma è un punto di vista smaccatamente antropocentrico (e assai poco “copernicano”).
•[3·27] • «Il “pi greco” esiste davvero nel cielo […]»: ma π non esiste soltanto nella geometria euclidea?
•[ivi]• «Per il realista, il numero “sette” esiste solo come idea immateriale, che vediamo realizzata in casi specifici come quelli dei sette nani […]»: il ‹realismo›, però, non era menzionato nella casistica iniziale del cpv. 3·1, in cui comparivano la posizione ‹empirista›, quella degli ‹idealisti›, quella ‹operazionalista› e quella ‹logicista›); e in effetti dalle considerazioni che seguono pare evidente che Barrow identifichi “realismo” e “idealismo”.
NOTA: potrebbe anche essere che il “realismo” in senso matematico si differenzi da quello in senso filosofico, ma che se ne differenzi a un punto tale da diventarne praticamente l’opposto?
•[ivi]• «[…] si ritiene che la nostra elaborazione mentale dei dati sensoriali non abbia alcuna conseguenza sulla natura matematica della realtà»: ci potrebbe essere del vero – nella follia di Barrow – se consideriamo che le “idee” che fondano la matematica potrebbero essere più “primitive” dell’uso consapevole dei sensi, quindi anche precedenti rispetto all’acquisizione del pensiero verbale.
•[ivi]• «Convinzioni di questo tipo sembrano implicare che Dio sia un matematico […]»: dal ‹platonismo matematico› al “progetto intelligente” (o “disegno intelligente”, ‹intelligent design›); del resto persino Galileo era un fervente cattolico (era anzi convinto di poter “modernizzare” il pensiero della Chiesa).
NOTA: per la proprietà riflessiva, se Dio è un matematico, anche un matematico è Dio, o perlomeno si ritiene tale, il che lo espone al rischio perenne di necessitare di trattamenti psichiatrici. Questo spiegherebbe come mai molti matematici non ci stiano tanto con la testa…
•[ivi]• «[…] deve esistere una logica immateriale più vasta dell’Universo materiale»: per “logica immateriale” Barrow intende una “mente” senza corpo? “più vasta” in che senso?
•[3·28] • «Spinoza credeva che questa libertà [che Dio potesse, volendo, infrangere le leggi matematiche] esistesse […]»: ricordiamo che però Spinoza, nonostante fosse in assiduo dialogo con filosofi cristiani, era ebreo – per quanto “scomunicato” dalla sua comunità – e muoveva da presupposti culturali “giudaici”, circostanza che spesso non viene presa in considerazione.
•[3·30] • «[…] il platonismo presenta anche una serie di difficoltà […]»: a ben vedere, sono difficoltà dovute al suo essere una forma di “dualismo”, concependo l’esistenza di due “realtà” ben distinte – quella “materiale” e quella “spirituale” o “ideale” – che poi si ha qualche difficoltà a far comunicare tra loro.
•[ivi]• Nel testo originario: «[…] gli oggetti che arriviamo a conoscere sono in grado di interagire con noi in modo casuale [sic!] […]», ma innanzitutto siamo noi a interagire con gli oggetti più che il viceversa, ma poi qualche perplessità suscita il “casuale”, non sarà – per caso – “causale”, nel senso che gli oggetti “rispondono” alle nostre sollecitazioni? Marcato con [sic!].
•[ivi]• «Roger Penrose ha elevato la frase di Gödel, la quale dimostra la propria indimostrabilità, a segno della consapevolezza umana […]»: ma forse è proprio Penrose a essere poco consapevole delle conseguenze delle proprie affermazioni.
•[ivi]• «[…] chiunque non sia in grado di afferrare il significato e la verità della frase di Gödel sarebbe in un certo senso non completamente consapevole»: o non completamente umano… il che forse per Penrose – e per Barrow – è più o meno la stessa cosa.
•[3·31] • Nel testo originario: «[…] il ‹costruttivismo›, una versione matematica della dottrina dell’operativismo [sic!]»: questo “operativismo” è la stessa cosa dell’“operazionalismo” menzionato nel cpv. 3·1? Se non lo è, in cosa se ne discosta? Altrimenti: potrebbe anche essere un refuso? Marcato con [sic!].
- empirismo: dall’esperienza, dai sensi;
- idealismo/realismo: dall’accesso al mondo delle idee, reale quanto quello materiale;
- operazionalismo: dalle operazioni necessarie per misurare le cose (?);
- logicismo: dal metodo assiomatico-deduttivo.
Comunque il problema di Barrow è spiegare la “sorprendente” efficacia della descrizione matematica del mondo; anche se per Kant – iscritto a sua insaputa tra gli empiristi – la percezione viene inevitabilmente “alterata” dall’intervento delle categorie, l’evoluzione naturale dovrebbe assicurare che il nostro modo di rappresentarci l’ambiente sia sostanzialmente corretto, altrimenti ci saremmo già estinti da tempo; e tuttavia l’applicabilità della matematica si spinge ben al di là dell’ambiente ristretto dal quale dipende la nostra sopravvivenza. L’approccio logicista, formalista, costruttivista o intuizionista che dir si voglia, fu una reazione ai paradossi che a fine Ottocento minacciavano la coerenza interna di molte discipline; nel 1900, al Congresso Internazionale dei Matematici di Bologna, Hilbert propose un elenco dei 10 maggiori problemi ancora irrisolti, il 2° dei quali era “dimostrare la consistenza dell’aritmetica”; nel 1931, però, Gödel dimostrò che qualsiasi teoria assiomatica abbastanza complessa da includere l’aritmetica consente di formulare proposizioni indecidibili sulla base dei suoi assiomi, vanificando in tal modo il programma di Hilbert.
Seppur ridimensionato nelle sue ambizioni, il formalismo sopravvisse nella pratica dei matematici, trovando epigoni nel gruppo Bourbaki, un consorzio di matematici francesi ai quali Barrow dedica qualche pagina polemica, appoggiandosi persino ad Einstein, prima di svelare che lui propende per un certo “platonismo matematico”, crede cioè nell’esistenza, da qualche parte fuori di noi, dei concetti e delle verità matematiche – ciò che nella rassegna iniziale aveva chiamato idealismo – e sostiene persino che tale impostazione trova una corrispondenza in alcune dispute teologiche – dagli antichi filosofi neo-platonici, a quelli medievali, a Spinoza – sulla supremazia tra l’onnipotenza divina, la logica e la matematica. Non a caso, prima di morire di denutrizione, Gödel s’era messo in testa di dimostrare l’esistenza di Dio; se non sono matti… In ogni caso Barrow ammette che l’idealismo platonico presenta gli inconvenienti menzionati sopra.
Il “costruttivismo”, una derivazione dell’operativismo [sic!] che Barrow fa risalire a Kronecker, vorrebbe limitare la legittimità dei concetti matematici ai soli procedimenti finiti, ma ha l’effetto collaterale di creare un 3° stato di verità “indecidibile” oltre a “vero” e “falso”, e l’inconveniente di escludere di conseguenza tutte le dimostrazioni mediante ‹reductio ad absurdum› che erano invece consentite dalla logica aristotelica. Per inciso, questa restrizione inficerebbe anche molte teorie fisiche moderne, come la relatività generale o la meccanica quantistica. Un accanito sostenitore delle posizioni costruttiviste, nella loro versione “intuizionista”, fu Brouwer, del quale Barrow racconta l’epico scontro con Hilbert – scontro che Einstein paragonò alla ‹Batracomiomachia› – ma il cui programma ebbe difficile accoglienza tra i matematici perché, per quanto formalmente corretto, presenta notevoli inconvenienti nel lavoro pratico. Ebbe invece maggior seguito tra gli “informatici” (Turing, Post e Church facendo scuola) anche prima che venissero effettivamente realizzati i moderni computer: la “macchina di Turing” avrebbe dovuto poter distinguere in un tempo finito quali fossero le asserzioni “vere” e quali quelle “false”, ma fu dimostrato che esistono anche proposizioni ‹non-computabili›, che richiederebbero cioè un tempo infinito per essere valutate. Oltre a queste, esistono poi “operazioni” che, pur essendo teoricamente computabili, richiederebbero comunque un tempo lunghissimo – migliaia o addirittura milioni di anni – per essere effettivamente elaborate; una tipica applicazione di funzioni del genere si trova nella moderna crittografia.
RICERCA: nuova luce sull’origine della conoscenza matematica potrebbe essere gettata dalla Teoria della nascita (Fagioli); il pensiero umano deriverebbe dalla reazione pulsionale del neonato contro lo stimolo luminoso, quindi dai “sensi” e dalla realtà del corpo, come afferma l’empirismo, ma non dall’esperienza definita e cosciente che si ha da adulti; l’annullamento e il rifiuto della realtà materiale esterna che il neonato fa lo porta a concepire una realtà interna, psichica, elaborando vaghe tracce di sensazioni prenatali in una immagine (non ancora definita né cosciente) di sé e nella speranza-certezza che esista un altro essere umano con cui entrare in rapporto. Nel corso di questo rapporto, cioè durante l’allattamento, il corpo continua a svilupparsi e i sensi diventano progressivamente più maturi, si formano così nuove immagini, via via più definite, che arricchiscono quella vaga originaria; in questo processo, un’idea che svolge un ruolo fondamentale nel dare forma specifica all’identità umana e personale è quella della linea, che non è tratta dall’esperienza (nella natura non esistono linee), ma le cui premesse, come capacità di immaginare, risalgono alla nascita.
NOTA: la linea è senza dubbio il fondamento della geometria – euclidea o non euclidea che sia – in quanto il punto, ente indivisibile, si ottiene dall’intersezione tra 2 linee, ed essendo privo di dimensioni da solo non potrebbe costruire nulla; la linea è movimento, e come tale continuità. Ma l’aritmetica, il discontinuo, l’infinito discreto, i numeri interi cosiddetti “naturali”, da dove nascono? Forse dalle poppate? In realtà, sembrerebbe esistere un collegamento tra linea e numero, per il fatto che le prime testimonianze preistoriche di rappresentazioni numeriche sono “tacche”, cioè graffi, più o meno paralleli, praticati su una superficie e accostati a formare piccoli gruppi.
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NOTA: in effetti tra le quattro concezioni sommariamente descritte da Barrow manca quella banale, dell’uomo della strada, che è convinto che le cose siano fatte di materia ed abbiano un’esistenza oggettiva fuori di lui. Non si capisce perché Barrow assimili questa concezione a quella “idealista”.
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NOTA: a ben pensarci, però, l’universalità della matematica potrebbe avere un’altra spiegazione, e quella che chiamiamo “astrazione” potrebbe essere soltanto un guscio esterno (come la grammatica lo è per le lingue); se la radice della matematica fosse nella dinamica della nascita (umana) – e quindi nel pensiero senza coscienza dei primi mesi e forse istanti di vita – allora si spiegherebbe la sua relativa indipendenza dall’influenza culturale.
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•[ivi]• «Se la nostra mente avesse modellato rappresentazioni del mondo che si allontanavano in modo significativo dalla vera natura delle cose, esse sarebbero sopravvissute meno a lungo di rappresentazioni più fedeli»: ma Barrow dimentica che la chiave del successo della nostra specie non sta nell’adattarsi al mondo quale esso è, bensì proprio nell’immaginare e nel realizzare cose che nel mondo (nella natura) non esistono. Ovviamente, perché la fantasia possa avere successo, essa deve “tener conto” della realtà per poterla modificare: non basta immaginare, occorre anche saper realizzare.
NOTA: e comunque, non si vede perché le argomentazioni di Barrow debbano essere valide solamente per la specie umana; l’evoluzione naturale ha selezionato tutte le specie attualmente esistenti e persino quelle che si sono estinte, magari dopo milioni di anni come i dinosauri o ancor prima i trilobiti; ci pare assai dubbio che tra queste vi fossero dei matematici; l’unica spiegazione sta nella convinzione latente, ma assai poco giustificata, che l’essere umano sia la punta più avanzata, e per così dire “finale”, dell’evoluzione naturale; ma è un punto di vista smaccatamente antropocentrico (e assai poco “copernicano”).
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•[ivi]• «Per il realista, il numero “sette” esiste solo come idea immateriale, che vediamo realizzata in casi specifici come quelli dei sette nani […]»: il ‹realismo›, però, non era menzionato nella casistica iniziale del cpv. 3·1, in cui comparivano la posizione ‹empirista›, quella degli ‹idealisti›, quella ‹operazionalista› e quella ‹logicista›); e in effetti dalle considerazioni che seguono pare evidente che Barrow identifichi “realismo” e “idealismo”.
NOTA: potrebbe anche essere che il “realismo” in senso matematico si differenzi da quello in senso filosofico, ma che se ne differenzi a un punto tale da diventarne praticamente l’opposto?
•[ivi]• «[…] si ritiene che la nostra elaborazione mentale dei dati sensoriali non abbia alcuna conseguenza sulla natura matematica della realtà»: ci potrebbe essere del vero – nella follia di Barrow – se consideriamo che le “idee” che fondano la matematica potrebbero essere più “primitive” dell’uso consapevole dei sensi, quindi anche precedenti rispetto all’acquisizione del pensiero verbale.
•[ivi]• «Convinzioni di questo tipo sembrano implicare che Dio sia un matematico […]»: dal ‹platonismo matematico› al “progetto intelligente” (o “disegno intelligente”, ‹intelligent design›); del resto persino Galileo era un fervente cattolico (era anzi convinto di poter “modernizzare” il pensiero della Chiesa).
NOTA: per la proprietà riflessiva, se Dio è un matematico, anche un matematico è Dio, o perlomeno si ritiene tale, il che lo espone al rischio perenne di necessitare di trattamenti psichiatrici. Questo spiegherebbe come mai molti matematici non ci stiano tanto con la testa…
•[ivi]• «[…] deve esistere una logica immateriale più vasta dell’Universo materiale»: per “logica immateriale” Barrow intende una “mente” senza corpo? “più vasta” in che senso?
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•[ivi]• Nel testo originario: «[…] gli oggetti che arriviamo a conoscere sono in grado di interagire con noi in modo casuale [sic!] […]», ma innanzitutto siamo noi a interagire con gli oggetti più che il viceversa, ma poi qualche perplessità suscita il “casuale”, non sarà – per caso – “causale”, nel senso che gli oggetti “rispondono” alle nostre sollecitazioni? Marcato con [sic!].
•[ivi]• «Roger Penrose ha elevato la frase di Gödel, la quale dimostra la propria indimostrabilità, a segno della consapevolezza umana […]»: ma forse è proprio Penrose a essere poco consapevole delle conseguenze delle proprie affermazioni.
•[ivi]• «[…] chiunque non sia in grado di afferrare il significato e la verità della frase di Gödel sarebbe in un certo senso non completamente consapevole»: o non completamente umano… il che forse per Penrose – e per Barrow – è più o meno la stessa cosa.
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[] John D. Barrow (1992), ‹Perché il mondo è matematico?›, Laterza 1992.
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